Dal tuo finestrino vedi enormi distese di alberi colorati: una miriade di piccoli fuochi ti chiama, anche se a centinaia di metri di distanza, vorresti già essere libero dal ferreo colosso in cui ti ritrovi, e librarti tra quelle foglie rossastre. Case, numerosissime, ordinatissime, diversissime. Finestre grandi poi piccole, colori accesi poi spenti, piscine poi campi coltivati: ogni casa cerca di liberarsi da quell’imposto ordine tendando di spiccare. Il risultato è un magnifico caos che pare incasellato da un attento mosaicista.
Non sei ancora in città, dall’aereo non la vedrai, potrai solo sognarla, potrai solo sognare quali infiniti palazzi abbia costruito un popolo così abile nei mosaici.

Scenderai da quel colosso alato, ma anche arrivato in città, non smetterai mai di librarti tra le nuvole, non sarai mai libero da quel cielo.  Smisurati palazzi dominano ogni via, accecanti insegne dominano il tuo occhio. Rimarrai per ore con la testa in sù, e ci rimarresti altrettante: tutti amerebbero vivere in quel cielo, persino i grattacieli con le loro punte sembrano voler acchiappare le nuvole.

L’ordinatissimo caos che avevi ammirato in aria persiste in terra.
Persone, luci, voci, mani e scarpe su scarpe, non un momento per pensare, non un momento per orientarti, la folla ti domina, ti sposta, ti dirige.
Non sai dove devi andare, ma ci vai e subito.

Ti ritrovi a Central Park, ritrovi quegli alberi che avevi ammirato dal finestrino. L’entropia urbana trova riposo tra quelle foglie multicolore, quell’erba verdastra e quelle placide distese d’acqua. I newyorkesi si fanno piccole bestiole spensierate, prestano il loro fervente spirito agli scogliattoli, che corrono come fossero in un incolmabile ritardo. Gli alberi si fanno caleidoscopi, quale piacere a vedere il mutare delle luci filtrate dalle loro foglie, ne senti quasi l’energia vitale scorrerti fra le vene.
Ogni secondo in cui alzi lo sguardo, quella città ti fa venire voglia di vivere.

Quanto piacevole alzare lo sguardo in quella città, quanto doloroso abbassarlo. Un barbone, due, tre, innumerevoli, lo sguardo affranto, gli occhi bassi bassi, le mani che tremano, forse per il freddo o forse per l’astinenza. Non lo sai, e forse non lo vuoi sapere. Non vuoi sapere come sono finiti lì, non vuoi sapere perché siano così dannatamente numerosi e non vuoi sapere il dolore che provano giornalmente. Forse il sogno americano in quanto tale è pura illusione…